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Il poeta e l'antropologo. Due fotografie per due Paesi

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La fotografia della signora Letta voleva tornare a Lacedonia, e alla fine c’è tornata. Quarantacinque anni dopo. Per merito di una nevicata, di una buona memoria, e del Web.

6549988C-74BB-47B1-BE54-4E6BB9825707Da quando è tornata, quella foto non è stata tranquilla. Ha fatto figlie: altre immagini.

Questa è la storia di un paese che non si è accontentato della nostalgia. La storia di come un tesoro fotografico del passato può restare vivo, diventare un tesoro del presente.

Sì, lo so, non sono stato chiaro per niente. Ve la racconto meglio, quella storia, ma dovete seguirmi.

La nevicata era quella del 2012, imponente nel centro-sud. Gerardo voleva tornare al paese natale, Lacedonia, ma non era sicuro che fosse una buona idea. Sua moglie Luigina cercò notizie sul traffico su Internet. Come si fa oggi.

Vedete, Internet fa confusione, non sa mai bene cosa cerchi, e allora esagera. E con la coda dell’occhio, fra tanti risultati di ricerca per la parola Lacedonia, Luigina vide una foto, in bianco e nero, e in quella foto un volto. Che la chiamava.

Era Rosa Antonia, detta Letta. Sua suocera. Ma cosa ci faceva, quella foto, sul sito di un antropologo americano? Gerardo lo sapeva. Se lo ricordò, per meglio dire. Gli venne in mente che mamma Letta raccontava di un americano, fotografo, che un tempo le aveva fatto dei ritratti, e lei pensava che sarebbe finita su qualche rotocalco americano.

F977A6D3-AAB9-49EF-AB41-771F0BFA90BAGerardo credeva fosse una specie di favola. Invece ecco d'un tratto quella foto tornata da lontano lontano nel tempo e nel mondo, ed era come se sua madre gli dicesse, “vedi, non ti raccontavo bugie”.

Lo raccontò così Gerardo Ruggiero, qualche anno fa, il ritorno a casa, a Lacedonia, di un album dimenticato.

L’americano si chiamava, e si chiama ancora, Frank Cancian, in realtà italo-americano, figlio di emigrati, studente di antropologia che nel 1957 aveva vinto una borsa di studio Fullbright e se la volle spendere per un una ricerca su un piccolo paese d’Italia, la terra dei suoi antenati.

Il paese glielo suggerì un antropologo italiano, Tullio Tentori. Lacedonia. Un borgo di confine fra Campania e Puglia, un centinaio di chilometri a est di Napoli, poco più di seimila anime, tre su quattro contadini, uno su due analfabeta.

Un paese di case con gli animali dentro, tante ancora senza elettricità e acqua corrente. Un paese di quelli che i fotografi italiani avevano ormai smesso di “scoprire”, quando il folclore degli stracci cominciava ormai a lasciare il posto, sui rotocalchi, alla mascherata dei matrimoni delle regine e alle fanfaronate dei divi paparazzati in via Veneto.

A Frank, del pittoresco della miseria importava niente. Era un ricercatore. Aveva 22 anni soltanto ma sognava di fare antropologia visuale.

Si proponeva di “capire come le persone vivevano e fotografarne la quotidianità”. Si riteneva “un documentarista con un punto di vista”. Fotografò quel borgo per sette mesi, con cura, metodo, attenzione, immersione. Portò 1801 negativi oltre oceano. E non ne fece nulla.

“Non ero riuscito a trovare nessuna combinazione pratica che sostenesse la fotografia”. Lasciò perdere, intanto era diventato professore all’università di Irvine. Se ne andò a studiare i Maya, in Messico, per trent’anni.

Solo quando andò in pensione, riordinando l’archivio, ritrovò il suo reportage su Lacedonia, e lo mise sul sito. Dove la nevicata del 2012 e la buona memoria di Luigina fecero il resto.

Le fotografie di Cancian, dicevo, tornarono a Lacedonia con una mostra e un libro, sei anni fa. Non è questa la notizia che volevo darvi, è solo la premessa.

La notizia è che Lacedonia non le ha mai considerate una specie di album ingiallito, un repertorio di sospiri nostalgici. Qualcuno invece ha voluto che quelle fotografie agissero, prolificassero, ne producessero altre. Che Lacedonia vivesse, e non morisse, nelle sue immagini.

BE1AB09C-423E-4FEA-BC19-74399BB87F43Da alcuni anni c’è dunque un concorso-mostra, 1801 passaggi, aperto a tutti i fotografi interessati. Lo promuove il MAVI, Museo Antropologico Visivo Irpino. Ogni anno venti fotografie di Cancian vengono scelte, e i partecipanti sono chiamati a dare continuità a quel che ci vedono.

Ve lo dico perché siete ancora in tempo per il concorso di quest’anno. Date un’occhiata alle condizioni sul sito del Museo. Deciderà alla fine una eccellente giuria composta da una studiosa, Simona Guerra, un antropologo visuale, Francesco Faeta, e un fotografo di grande esperienza, Francesco Zizola.

Mentre ci pensate, vi dico cosa questa storia ha fatto pensare a me. Nel 1957, quando Cancian sceglie il suo paese, da un paio di anni un grande fotografo americano ha scelto a sua volta il suo. Che grazie a lui diventerà celebre, diventerà Un Paese. Il fotografo era Paul Strand e il paese era la Luzzara di Cesare Zavattini.

Scusate se mi permetto di dire che quei due paesi quasi contemporaneamente fotografati non si somigliano. Voglio dire che i loro ritratti fotografici si somigliano molto meno di quanto probabilmente si somigliassero, al di là della geografia e della storia, i due originali.

Saprete che Strand scartò molte location prima di scegliere Luzzara. Aveva preso in considerazione anche alcuni paesi del Meridione, per esempio Gaeta. Li aveva scartati perché in realtà non cercava il miserabilismo, ma l’epica proletaria. Voleva un paese di (non troppo) poveri ma belli e soprattutto orgogliosi e fieri.

Cancian invece voleva un paese di relazioni (nelle foto si vede quanto sia affascinato dai gesti "parlanti", da buon etnologo) e di contraddizioni. Perché non era un poeta, come Strand, ma un antropologo. Sfogliate il suo libro (Cancian ve ne mette generosamente a disposizione online l'edizione americana). Se avete una copia di Un paese, sfogliate anche quella.

I paesani di Cancian ridono. Guardano spesso in macchina: sanno che c’è il fotografo e noi sappiamo che lo sanno. “È meglio se la gente mi conosce e sa che sono lì per scattare foto”. Quelli di Strand non sorridono quasi mai (gli diceva di non farlo) e guardano altrove.

A Luzzara il tempo è fermo, come i membri della famiglia Lusetti in posa scultorea quasi fossero sul frontone occidentale della loro casa.

A Lacedonia ci sono gli asini per le strade ma si vede anche un poster del cinema: danno un film con Gregory Peck e Audrey Hepburn, il titolo è oscurato da un volantino di un comizio socialista. Le ragazzine sanno anche vestirsi da città e i ragazzi hanno l’occhiale nero che sarà presto la firma di Gino Paoli. Il nuovo è arrivato in paese, e lo sta lo svuotando: uno su sei parte migrante.

Luzzara di Strand è una Shangri-La senza tempo della purezza proletaria. Lacedonia di Cancian è un paese contemporaneo, sulla faglia fra arcaismo e modernità.

Luzzara di Strand è un paese dell’immaginario (anche se non vuol dire posticcio). Lacedonia di Cancian è un paese della storia (anche se non vuol dire prosaico).

Non sono due paesi diversi, sono due linguaggi fotografici diversi, che il bianconero accomuna ingannevolmente. Sono due genealogie del fotografico, entrambe nobili, che possono anche scambiarsi qualche parola, ma camminano su strade diverse.

Dopo Strand, le resurrezioni fotografiche di Luzzara (ce ne furono molte) poterono essere solo nuove letture poetiche, rivisitazioni d’autore del lavoro di un autore. Verifiche di un testo.

Dopo Cancian, la resurrezione fotografica di Lacedonia è la rivisitazione di un luogo e di una comunità. Verifiche di un contesto.

Abbiamo bisogno di entrambi, di Strand e di Cancian, del poeta e dell’antropologo. La fotografia per nostra fortuna è grande, e può darceli entrambi.


Una strega sotto il Manto di Biasiucci

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Penso di averlo già scritto. Antonio Biasiucci è uno di quegli autori che vengono considerati "difficili", poco adatti a occasioni pop, festival, mostre assessorili e via dicendo.

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Antonio Biasiucci, da Manto. © 2019 Antonio Biasiucci

È un clamoroso errore, probabilmente una colpevole pigrizia mentale. Il mondo di Biasiucci ha solo bisogno di una chiave, che lui ci lascia sotto lo zerbino della porta. Una volta dentro, tutto è chiaro.

Anche se chiaro è forse l'ultimo aggettivo che verrebbe da associare al nero fondo da cui Antonio fa venire a galla le sue visioni dall'indistinto buio di una notte cosmica: "emersioni alla luce", dice Valerio Magrelli nel commento al libro di cui sto per parlarvi.

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Antonio Biasiucci, da Manto. © 2019 Antonio Biasiucci

Sì, lo avevo già scritto, ma ora lo riscrivo ancora più convinto dopo aver finito di viaggiare sotto il suo Manto, ultima fatica, insolita trasferta.

Dalla sua Napoli di salsedine alla solare Mantova terrestre. Un incarico, da una fondazione bancaria che, come si usa, vuole mostrare il suo radicamento nel territorio. Avrei magari voluto assistere alle prime reazioni dei committenti, quando Biasiucci ha consegnato il lavoro.

Se sono intelligenti, avranno capito, dopo un primo sbigottimento, che c'è molto più di un territorio li dentro. C'è un sottosuolo. Quello della nostra cultura più profonda, quando era ancora poco distinta dalla natura.

La chiave per capire Biasiucci è quella. Con una straordinaria coerenza che attraversa tutta la diversità dei suoi oggetti e dei suoi progetti, è il fotografo del fondo antropologico e magico del rapporto fra l'uomo e il mondo, e quando dico fondo ho in mente l'immagine del fondo di una pentola, dove rosola e si brucia e diventa nero il sugo del nutrimento terrestre.

La scuoiatura del maiale. Le lave vulcaniche. L'impasto del pane. Non c'è un confine preciso nell'immaginario di Biasiucci fra organico e inorganico, animato e inanimato, fra i quattro elementi mitologici, tutto si muta in tutto, come se la creazione non fosse ancora finita e le cose fossero ancora a disposizione dell'uomo primitivo in una forma indecisa, metamorfica.

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Antonio Biasiucci, da Manto. © 2019 Antonio Biasiucci

Doveva passare dalla georgica Mantova, questa ricerca, quasi per necessità: perché lì una civiltà di corte raffinatissima affondava le radici in una civiltà contadina nobilissima.

Su quella soglia dove la natura sta per diventare cultura, oltretutto, Biasiucci ha trovato ad attenderlo il mito. Quello di Manto, maga, o strega, o indovina, figlia esule di Tiresia in fuga dalla rovina di Tebe.

La magia, così come la divinazione, è arte della somiglianza e della con-fusione. Quel che sembra, non è; quel che appare, diventa. Basta questa intuizione, così semplice, per farci entrare sotto il manto di Manto, e capire tutto.

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Antonio Biasiucci, da Manto. © 2019 Antonio Biasiucci

Sfogliandomi il libro sotto gli occhi, Biasiucci comincia ad enumerarmi che cosa le cose sono davvero, quel teschio è una melanzana, quella dama spettale una pannocchia, quel drappeggio barocco una forma di grana coperta da uno straccio; poi smette perché capisce che, nominandole, le metamorfosi si arrestano. Quell'utero è... che cosa?

"Vedi tu, guarda tu, decidi tu" che cosa è, cosa non è, cosa può essere, cosa può diventare cosa. Sculture di pietra che sembrano vivere, volti vivi che sembrano statue. Tutte donne coma Manto i ritratti che ci guardano, perché donna e madre è la terra.

Chi beve le acque del lago che circonda la città avrà la veggenza, stabilì Manto. Sconsiglierei di sperimentare l'incantesimo oggi e di lasciare le acque di Mantova alla sete dei fiori di loto che vi portò una giovane botanica ai primi del Novecento, aggiungendo un tocco di orientalismo alla sua natura.

Non c'è bisogno di pozioni magiche, perché un uomo di immagini oggi ci offre il dono della veggenza sotto una nuova specie, quella delle sue fotografie telluriche, ctonie, magiche, scure e limpide.

Dai, facciamoci un lombroselfie

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Lo “scienziato infelice”, la cattiva coscienza del positivismo, l’indigeribile padre della fisiognomica criminale e criminalizzante ha perso: ma ha vinto.

Lombroso1Le teorie di Cesare Lombroso sono state da tempo trasferite dal recinto della scienza a quello del pregiudizio.

Però la sua idea che ci si possa leggere in faccia se siamo delinquenti nati fa ancora parte di quelle cose su cui scherziamo, ma a cui sotto sotto crediamo, un po’ come al malocchio.

Per questo una visita al Museo Lombroso di Torino, riaperto esattamente dieci anni fa, è assieme imbarazzante ed eccitante.

Come lo è ora la mostra I mille volti di Lombroso che al Museo Nazionale del Cinema mette in fila (lunghissima) gli oggetti su cui alla fine dell’Ottocento il criminologo fondò la sua colpevolizzante scienza: le fotografie, ripescate dagli archivi del Museo di Antropologia criminale dell’Università di Torino.

Centinaia di ritratti (ma anche disegni, calchi di crani, maschere di cera…) di delinquenti e povera gente, morti di fame e dementi, da lui raccolti pazientemente, un atlante impietoso della devianza, un’anagrafe delle fisionomie colpevoli, qui analizzato per categorie: donne, folli, briganti, devianti sessuali…

Settemila ne mise insieme, di fotografie. Le chiese a colleghi, a medici, a dirigenti degli istituti psichiatrici.

Ma ne comperò anche dove ne trovava. Addirittura, ne commissionò a onesti professionisti della lente.

Può essere imbarazzante scoprire che perfino le fotografie del riformista e umanista Jacob Riis finirono in quel calderone da cui Lombroso distillò la sua toponomastica facciale del delinquente atavico (e va detto, anche del suo reciproco, l'uomo di genio).

Non avrebbe mai potuto accumulare e confrontare personalmente così tanti esemplari umani senza quel formidabile strumento di riproduzione.

Ma la fotografia fu per lui qualcosa più che un metodo di documentazione e di comparazione. Fu uno strumento diagnostico, e un elemento di prova. Ma di che prova parliamo? Prova di cosa, di preciso?

I volti sono mutevoli. Però la fotografia ne sceglie, ne stabilisce, ne assolutizza solo un fugace stato. Non sempre il migliore.

Chiunque di noi può apparire un delinquente in una fotografia: per verificarlo, basta aprire i nostri passaporti (continuo a meravigliarmi che i doganieri non mi arrestino solo guardando la mia fototessera).

Che si trattasse di una inversione dell’ordine della prova, ossia che la devastazione di quei volti (non sempre così clamorosa, comunque…) fosse la conseguenza di un degrado materiale, sociale, morale, psicologico, e non il marchio atavico di una condanna biologica, in verità lo pensavano già alcuni contemporanei di Lombroso.

Ci fu già allora chi gli fece notare beffardamente che, se le sue categorie visuali erano giuste, gran parte degli italiani dovevano essere classificati come delinquenti.

Lombroso3Per tutta risposta, alla sua morte e con un certo spiritaccio, Lombroso lasciò al futuro museo la sua stessa testa, tagliata dal corpo, immersa in un vaso di formalina, come per dire: controllate voi stessi (ma non è possibile: il Museo ha scelto di non esporre il reperto).

Nonostante tutto, nel corso degli anni il rigetto delle teorie lombrosiane nelle sue parti più intollerabili (la dimostrazione dell'inferiorità antropologica della donna, il disprezzo per le "devianze" sessuali...) si è alternato a rivalutazioni parziali o sostanziose.

Ma soprattutto, “Lombroso aveva ragione” è diventato un tormentone da Facebook, la didascalia di infiniti meme, sotto la foto di qualunque personaggio che non ci piace.

Ogni volta che diciamo, o pensiamo “quello lì ha una faccia da galera” rendiamo omaggio al beffardo torinese.

Scienziato o ciarlatano? In quest’epoca di risorgenti razzismi, liquidare Lombroso troppo in fretta non ci aiuta a capire da dove derivano certe resurrezioni improvvise del pregiudizio fisiognomico.

La vera intuizione di Lombroso non fu la sua scadente generalizzazione colpevolizzante dei trati di volti che portavano i segni della povertà, dell'emarginazione, della deprivazione.

Lombroso intuì che, con l'avvento della fotografia, il volto umano stava diventando la moneta corrente del giudizio sociale. La prima cosa che ci viene richiesta di mostrare in qualsiasi avvio di relazione.

Se cominciò il potere, statale e poliziesco, a guardarci in faccia prima ancora di chiederci chi siamo (con i casellari giudiziari e le schede segnaletiche inventati da Alphonse Bertillon e ripresi in Italia da Salvatore Ottolenghi, che di Lombroso fu allievo), adesso è esperienza quotidiana, personale, privata (se esiste ancora qualcosa di privato nelle relazioni sociali).

La prima cosa che guardiamo di un nuovo contatto Facebook è la faccia che si guarda dal tondo del profilo. Alcuni sistemi commerciali (penso a AirB&B, tanto per non fare nomi) non accettano clienti che non esibiscano nel profilo Facebook la foto del loro volto.

Alcuni telefonini riconoscono il padrone solo dal volto che vedono con l'occhietto della loro fotocamera retroversa. I controlli doganali più evoluti e automatizzati, negli aeroporti, confrontano la foto del nostro passaporto con la nostra faccia inquadrata dalla videocamera.

Direte: sono verifiche tecniche, la macchina o il cellulare non ci giudicano, non deducono che abbiamo una faccia da delinquenti. Ne siamo proprio sicuri? C'è una percentuale di errore nel riconoscimento facciale. In quella sfumatura sta un giudizio di sospettabilità fisiognomico. Potrei essere un delinquente perché somiglio a quel delinquente che il sistema ha in archivio.

E quando nel messaggino all'amico o alla findanzata aggiungiamo un emoji, una "faccina", che cosa stiamo facendo? Caliamo i nostri sentimenti, le nostre emozioni, la nostra stessa identità in un simbolo generale di volto "significante".

Se tutto questo ci sembra semplciemente ovvio, neutro, naturale, allora il problema non è cosa fosse Lombroso in sé. Ma cosa è Lombroso in noi.

Un'abbaiante bellezza. Fotografare gli animali

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Allora, siete volpe o marmotta? Dai su, l'avete vista tutti la foto di Bao Yongqing che ha vinto quest'anno il premio World Wildlife Photographer of the Year. Chi non l'ha vista può farlo ora: non me la fate raccontare, perde tutto. Be', sicuramente è Il momento, come dice il suo titolo.

10. W. Wegman_Qey, 2017

William Wegman: Qey 2017. Stampa ai pigmenti. Courtesy l’artista. © William Wegman

Oh, ve lo dico: se fossi stato in giuria, l'avrei votata anch'io. Ma con la consapevolezza di tradire la mia missione di giurato fotonaturalista.

Perché è chiaro che, se questa foto ci dice qualcosa sulla vita degli animali selvatici (wildlife vuol dire questo), è del tutto evidente che non è per questo che ha vinto.

Non ci vuole molto a capire quanto l'impatto di questa fotografia dipenda dalle emozioni antropomorfiche che non possiamo fare a meno di proiettare su questi due esseri viventi in lotta per la vita.

Le loro espressioni di tensione e di terrore sono quelle che prestiamo noi a quell'attimo probabilmente casuale, ma felicemente scelto fra tanti altri momenti in cui quei due animali hanno semplicemente un aspetto da animali. Perché gli animali non hanno espressioni umane.

Oppure le hanno?

Caso sapiente vuole che lo stesso giorno in cui questa foto esce su tutti i siti dei media, mi arrivi sul tavolo il volume che accompagna una mostra di William Wegman al Masi di Lugano.

Being Human. Essere umani. Sulla copertina, una cane in pelliccia elegante tiene al guinzaglio un cane-cane.

Wegman, lo conoscono in tanti. Ma sarebbe meglio dire che tanti conoscono i suoi cani. I weimaraner che per quasi cinquant’anni sono stati il cast di una interminabile serie di ritratti.

07. W. Wegman_Casual, 2002

William Wegman: Casual 2002. Polaroid a colori. Proprietà dell’artista. © William Wegman

Sì, ritratti, e quando li avrete visti non vi rimarrà dubbio sull’uso di questo termine che diremmo riservato alla nobiltà del volto umano specchio dell’anima.

Wegman comprò per 35 dollari il suo primo cane nel 1970 a Long Beach, in California (ora vive a New York ma allora insegnava là). Amando l’arte, lo chiamò Man Ray.

Era un diavolo d’un cucciolo: irrequieto, rumoroso, non sopportava di non essere coccolato. Solo davanti alla fotocamera, Wegman notò subito, Man Ray diventava tranquillo, docile, collaborativo. Forse perché si sentiva al centro della sua attenzione.

Per dodici anni Man Ray fu il suo attore. Un fantastico attore. Versatile, paziente, professionale, ironico. Impersonò qualsiasi carattere, di qualsiasi epoca, di qualsiasi luogo, in qualsiasi stile.

Wegman era un artista, disegnava, dipingeva, produceva stampe. Diventò celebre per la sua Dog Art. Lo ha sempre saputo e gliene è grato. Quando morì, nel 1982, gli succedettero gli eredi: l’altrettanto divina Fay Ray, e tutta la prole di più generazioni: Chundo, Battina, Crooky, Chip, Bobbin, Candy, Penny, fino a Topper, ancora in servizio (oggi Wegman ha 77 anni).

Fantastici cani da set. Veri animali da palcoscenico. Wegman non usa Photoshop (sono quasi tutte Polaroid di medio formato). La collaborazione dei suoi modelli deve essere vera, e paziente. Can che abbaia non posa.

Provocatore grottesco e raffinato, Wegman ha chiesto la complicità dei cani per prendere sottilmente e ferocemente in giro la storia della fotografia, i suoi stili m i suoi cliché, i suoi generi. Guardate le fotografie di nudo: sì, i suoi cani sembrano davvero nudi in quelle foto.

Insomma, a dirla tutta, Man Ray diventò più celebre di lui. Finì sulle copertine di grandi riviste d’arte, ArtForum, Camera Arts, Avalanche. Fu invitato ai talk show di prima serata, perfino a quello di David Letterman. La gente lo riconosceva per strada. A differenza del padrone.

Dell’autore, si dovrebbe dire. Meglio dire il regista. Uno di quelli che lavorano con attori più famosi di loro.

05. W. Wegmana_On Base, 2007

William Wegman: On Base 2007. Polaroid a colori. Proprietà dell’artista. © William Wegman

Come saprete benissimo, ci sono altri celebri fotografi di cani. Uno è Elliott Erwitt, a cui però la definizione va assai stretta. Erwitt è un grande reporter dell’umano, oltre che un grande fotogiornalista; i cani sono stati per lui i rivelatori del suo umanesimo ironico.

Di sicuro, i cani di Wegman non sono davvero cani. Non solo perché li camuffa da umani. Lo sono perché tutti gli animali domestici, e molti di quelli “utili”, addomesticati e allevati, sono ormai dei centauri, delle arpie, delle sirene: metà uomini e metà bestie.

John Berger ha scritto pagine straordinarie sul modo in cui lo sguardo umano ha reso mutanti gli animali. “soggiogati e venerati, nutriti e sacrificati”, dimostrazione vivente dell’antropocentrismo imperialista della nostra razza.

Ci hanno dato tutto: compagnia, lavoro, perfino la loro carne. Hanno consolato la nostra solitudine, arricchito la nostra borsa, nutrito il nostro corpo. Li abbiamo ripagati sottraendoli alla Natura e trasferendoli nella Cultura. La nostra.

Tornate a guardare quella volpe e quella marmotta: non sono natura più di quanto non lo siano gli animali delle favole di Fedro e di Esopo, o nelle incisioni moraleggianti di Grandville, o quelli nei cartoni di Walt Dismey.

Forse ha ragione Wegman quando dice a William E. Ewing, curatore della mostra: “Un cane non ha bisogno di essere travestito per mostrare di avere qualità umane. Non ho fatto letteralmente alcuno sforzo per antropomorfizzarlo”.

Non c’era bisogno. Ha trovato il lavoro già fatto da secoli di convivenza tra l’uomo e il cane che, con tutto il rispetto per la commovente narrazione che fa Konrad Lorenz della nostra ancestrale amicizia, è sempre stata squilibrata, asimmetrica, vogliamo dirlo? Un po’ parassita.

04. W. Wegman_Newsworthy, 2004

William Wegman: Newsworthy 2004. Polaroid a colori. Proprietà dell’artista. © William Wegman

A questo punto la mia amica Silvia Amodio mi sgriderebbe. Grande fotografa di cani e padroni. Ma soprattutto, e prima ancora, appassionata studiosa di semantica intraspecifica. Traduco: dei linguaggi che l’uomo ha inventato per parlare con gli animali.

Silvia si è laureata in questa scienza di frontiera, ha lavorato a lungo sulle relazioni fra addestratori e delfini, sulle abilità linguistiche dei primati che conoscono centinaia di parole.

La sua saga video di esperimenti con la faraona Nina vi farà dubitare che “la gallina non è un animale intelligente / lo si capisce da come guarda la gente”.

Silvia forse mi direbbe che è possibile costruire un luogo in cui incontrarci, con rispetto. Le darei ragione. Non credo cambi molto il discorso.

Man Ray, dopo tutto, non capiva il suo posto nell’arte (il cane, intendo). Non si riconosceva nelle fotografie che lo resero celebre. L’abbaiante bellezza di quelle fotografie, bisogna pur riconoscere, non esisterebbe senza l’occhio umano che le ha immaginate.

Penso a un’ultima immagine di cani che non mi andrà mai via dal cuore. Un filmato di Franco Vaccari, otto minuti in superotto, anno 1971, muto (ma lui vi sovrincise una musica), titolo Cani lenti, ed è precisamente questo: una ripresa al rallentatore di cani randagi, che si aggirano per strada “con aria di poesia”. Guardatelo, ne trovate estratti online: spero condividiate lo struggimento che ho provato io.

Quei cani lenti non hanno bisogno di noi. Sembrano averci abbandonato. Non sono felici, ma ci hanno detto addio. “Gli animali non ci guardano più”, era la conclusione di Berger.

Strappati a viva forza dalla Natura e ingabbiati nella Cultura, come tutti gli oppressi non hanno nulla che sia davvero loro, che non sia solo nostro. L’unica cosa che ancora possono negarci è lo sguardo.

Gliene abbiamo fatte tante, troppe: li abbiamo sfruttati, torturati, mangiati, modificati, trattati come giocattoli, lasciati estinguere.

Forse un giorno si ammutineranno, tutti, inspiegabilmente, implacabilmente, come gli uccelli di Hitchcock.

Il vero fotografo è un semiurgo

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Matera. Sull’origine del nome ho letto cose bizzarre. Ma al diavolo l’etimologia e la toponomastica. A me Matera evoca immediatamente la parola materia. Del resto, se c’è una città materica, è quel meraviglioso presepe di pietra.

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Mario Cresci: Segni migranti, Sicilia 2014. © Mario Cresci, g.c.

So che non fu la suggestione del nome a portare Mario Cresci a Matera, ormai mezzo secolo fa.

Ma c’è qualcosa di suggestivo in quella coincidenza: che un grafico ribelle alla progressiva evanescenza del suo mestiere scegliesse di rinascere nella Betlemme della materia.

Era passato il ’68 e Cresci aveva deciso di rompere con tutto quello che il suo curriculum di studi lo aveva indotto a diventare: un creatore di forme per le imprese. Lavorava a Parigi per una agenzia di pubblicità.

Ma il design aveva tradito la sua promessa storica, quella annunciata dai maestri del Bauhaus: migliorare la vita dell’uomo. Aveva migliorato i profitti dell’imprenditore.

“La genialità di pochi professionisti”, scrisse amareggiato Cresci pochi anni dopo, “è servita ed è stata richiesta da poche aziende leader che producono per medi e alti redditi in Italia e all’estero”.

Niente più ricerca di materiali e standard di qualità a costi convenienti per un pubblico di massa, ma oggetti gradevoli per un consumo d’élite. “Il mito dell’oggetto inteso come elemento funzionale alla crescita sociale non è più attendibile”, concluse, e fece le valigie.

Nel ’74 si stabilì a Matera, dove lo aveva portato un incarico di collaborazione, come indagatore visuale, ad un progetto illuminato di piano urbanistico della città.

Mario Cresci, vedete, è una di quelle persone di cui non riesco a dire di dove sia. Le biografie me lo danno ligure di nascita, veneziano di studi, ma anche bergamasco, romano, napoletano, parigino… Ci ho rinunciato.

Così come ho rinunciato a definirlo in un genere professionale o artistico. Mi piacerebbe tanto continuare a chiamarlo fotografo, ma so che non posso, e non è giusto.

Ancora meno lo farò dopo aver percorso (servono ore, ma sono belle ore) questo grande volume che ha intitolato Segni migranti. Dove ho scoperto la quantità impressionante di lavoro grafico (poster, riviste, libri, allestimenti, mostre…) dispiegato nel corso della sua carriera: che conoscevo per qualità, ma non sospettavo per quantità.

Ci pensino altri più competenti di me a recensire questo lato della sua vocazione, cercandone i modelli e i padri (Steiner, Noorda, Dolcini…).

Io vi dico una cosa che finalmente ho capito. Una cosa sulla fotografia che Cresci cerca di farmi/ci capire da decenni. Che c’è un grande universo in cui stanno tutti i linguaggi visuali, ed è l’universo dei segni.

Che i segni non riposano ma si muovono, anzi migrano, da una forma all’altra, da un supporto all’altro, da una tecnica all’altra.

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Mario Cresci: Geometria Naturalis, 2013. © Mario Cresci, g.c.

Che la fotografia è solo una modalità dell’esistenza dei segni, storicamente non la prima né l’ultima, culturalmente provvisoria, intermedia e senza un confine preciso con tutte le altre.

Cresci non si è mai fatto alcun problema a varcare quei confini quando gli sembrava necessario. Per poi modificare quel prelievo col disegno, col montaggio, con il collage, con l’inserimento delle fotografie in oggetti tridimensionali.

Direi che ha demolito il comandamento modernista dello specifico fotografico: quello che impone ai fotografi di usare il loro medium “secondo la sua essenza”, ma quale sarebbe poi?

Mario Cresci fotografa quando pensa che una fotografia sia il modo migliore per prelevare e mettere in movimento un segno. La fotografia è medium, nel senso che è il mezzo di trasporto dei segni. Da dove a dove? Qui è il punto.

Negli anni in cui Cresci comincia il suo viaggio artistico, la fotografia è uno strumento fondamentale per il grafico editoriale e pubblicitario: prima degli strumenti elettronici, solo in camera oscura si possonoprodurre effetti, deformazioni, manipolazioni, distorsioni creative.

Ma il “lavoro della fotografia” in quel modo viene nascosto, tanto più occultato quanto più servile e funzionale diventa.

Anche questo, a un certo punto, Cresci si ribella. Rifiuta di prelevare segni materiali per inserirli nel circuito dei simulacri. Il viaggio dei segni, si convince, va da oggetti materiali a oggetti materiali. Così va a Matera.

Negli anni Settanta, la Basilicata è una delle terre del rimorso della modernità consumista. Una mecca degli antropologi, se vogliamo essere un po’ sarcastici. Comunque, è un posto dove i segni dell’uomo sono ancora fusi in oggetti e usati.

Utensili, case, mobili, abiti, anche immagini (sacre, rituali, devozionali) e anche fotografie, sì, perché la Lucania non era un eden senza tempo

Nelle case che andava a fotografare per quel censimento visuale Cresci le trovava appese al muro, lari e penati familiari, e allora le faceva staccare dal muro e le metteva in mano alla famiglia in posa, in quei trittici più che celebri e giustamente celebri dove il suo obiettivo stringeva in tre tempi dall’ambiente, alla persona, al segno, appunto.

Dunque Cresci volle rinascere come l’antropologo del segno. Ma anche questa definizione non mi sta troppo bene e forse neanche a lui. Perché oltre che praticare l’antropologia, ne ha fatto la critica visuale. Quando preleva segni, Cresci sa di essere un intellettuale che trasforma quello che studia.

Sa che guardare e restituire la  visione è modellare. Prendete quella sequenza, Geometria Naturalis, dove il movimento di un asino bendato condotto da un contadino su un campo di sterpaglie, a Tricarico, è paragonato alle deformazioni prospettiche di un cerchio: ora finalmente la capisco, vuol dire proprio questo, che non possiamo leggere il lavoro dell’antropologo (ma del fotografo in generale) senza chiederci da quale prospettiva lo ha realizzato (e da quale punto di vista lo stiamo guardando noi), quale messa in forma ha subìto, a quali modelli visuali ha obbedito.

Quellio che ci rivolge Cresci da mezzo secolo è l’invito a risalire a ritroso il viaggio del segno, che è un oggetto materiale (anche quando ci appare sul display di un materialissimo cellulare) che ha sempre origine da oggetti materiali.

È l’invito a non arrenderci alla favola della smaterializzazione, una trappola per indurci a rinunciare alle domande su come è fatto il mondo.

Qualsiasi citazione di un oggetto venga fatta dalla fotografia o dal disegno, scriveva trent’anni fa Giovanni Baule in una illuminante interpretazione del lavoro di Cresci, “è sempre una ricerca di artefatti primari: un cercare matrici”.

Qualsiasi segno è l’impressione di una matrice. Anche questo c’è nel mistero di quel nome di città. Matera, come matrice.

Tra fenomenologia della percezione e pratica dell’antropologo visuale, tra Merleau-Ponty e De Martino, così ha lavorato e lavora Mario Cresci. Producendo segni, facendoli migrare.

(Come gli esseri umani. Come i suoi segni migranti sui migranti, quelle ali bianche tracciate furiosamente col pennello sui sassi della spiaggia di Giardini Naxos, con la biacca, prima che la marea li cancellasse).

Ecco, se devo definire Mario Cresci, credo che sia l’uomo dei segni. Non quello che li studia, non un semiologo. Quello che li suscita, li crea e li mette al lavoro.

Ecco! Un semiurgo. Mario Cresci è un semiurgo. Adesso ho capito.

Di corpi e di immagini. La visione di Giorgia

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Va in edicola in questi giorni il volume della serie Maestri di fotografia di Repubblica - National Geographic dedicato a Giorgia Fiorio, esploratrice della relazione millenaria fra il corpo dell'uomo, lo spirito e le immagini. Pubblico un estratto dal mio testo nel volume.

CoverFiorio[...] Quando chiude Il dono, con la necessaria sofferenza di tutte le chiusure, dopo aver viaggiato dall’Etiopia all’India ad Haiti, dalla Birmania alle isole Vanuatu, dal Giappone al Tigrai all’isola di Pasqua al Perù, Giorgia Fiorio ha ormai alle spalle vent’anni di reportage, che lei però chiama missioni.

È una esploratrice visuale completa, matura, e qualcosa di più. Legge, studia, scrive, insegna, parla sei lingue tra cui l’hindi, crea e dirige per dieci anni un seminario internazionale, Reflexion Masterclass. Stampa da sé le fotografie per le sue mostre. Padroneggia uno stile inconfondibile. Molto deciso. Il suo formato quadrato è un ring, dove si affrontano toni e contrasti che partono sempre dal nero profondo; la grana del suo monocromo è calda, forte, evidente.

“Credo totalmente nella forma. Mi pare di non controllarla mai abbastanza”. Le dico che sono fotografie visibilmente, profondamente riscritte. Non la prende come una critica, anzi: “Voglio guidare l’occhio di chi guarda. Completamente. Voglio che veda quel che voglio fargli vedere. Uso tutti gli strumenti che ho, per questo: luce, composizione, dinamica, margini, bordi, tutto è controllato”.

Fin dal momento dello scatto. Dove il tabù del non intervento non è così ferreo. “Non mi faccio scrupolo di dire a uno che passa nella mia inquadratura: togliti da lì, la tua maglietta è troppo bianca”. Un giorno, in val di Fiemme, per una serie sui paesaggi e i confini, la sua assistente toglie dalla scena un brandello di carta. Ma che fai?, le chiede Giorgia. “Mi metto avanti sulla postproduzione”. La conosce bene.

Ma è proprio a questo punto, quando è sovrana delle sue immagini, che sceglie di rinunciare allo scettro. “Non credo più alla rappresentazione”, butta lì con noncuranza, col tono di chi chiede se gradisco una tazza di tè.

Questa va spiegata bene, Giorgia. “Non mi considero più una che fa fotografia. Non uso più questa parola, questa categoria, non come l’ho usata nei primi vent’anni del mio lavoro: quando volevo fare fotografie che restano. E non lo rinnego, sono fiera del mio lavoro. Adesso, però, la fotografia per me è solo uno strumento per costruire discorsi. Riascolto l’eco del consiglio del Dalai Lama: sento una enorme responsabilità verso le immagini e i significati che creano. Vedo i loro limiti. Fare fotografie, magari bellissime, oggi non basta più. Siamo immersi nelle immagini, ci lasciamo condizionare dalle immagini esistenti, pensiamo che quello che non si vede non esiste”.

Per questo ci fotografiamo così spesso? “Tutta questa gente si fa il selfie perché neanche se si pizzica è sicura di essere lì... Ero lì, un selfie dice solo questo, ma che tristezza questo esistere all’imperfetto… Abbiamo una responsabilità verso tutto questo visibile che produciamo ma non riusciamo a tenere a bada. E soprattutto verso l’invisibile che resta nascosto. Per questo, ho cominciato a lavorare sulle figure che già esistono. Voglio cercare quello che non riusciamo più a vedere in loro”.

La consapevolezza dell’essere. La consapevolezza del vedere. [...]

Marianne e Lisetta: da una Sardegna all'altra

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Sulla carrettiera a picco sul mare, quei due signori eleganti ci sbarrarono la strada con calma decisione. Avevano spalle da lottatori, ma la cravatta. E i baffi sul volto senza una precisa espressione.

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Marianne Sin-Pfältzer: Dorgali, 1968. © Ilisso edizioni, g.c.

Un gesto muto per dire: stop, fu sufficiente. Babbo disse: sono le guardie del corpo dell’Aga Khan. Ce ne tornammo prudentemente indietro, rinunciando al bagno in quell’acqua di vetro che non avevo mai visto né immaginato dopo una infanzia di sguazzi nella torbida pozza di Cesenatico, quell’acqua che anche se ce l’avevi al petto, pure se sotto c’era sabbia, ti ci vedevi i piedi.

Nel 1968 ero troppo piccolo per arrivarci da solo, avevo undici anni, ma ci ripensai più tardi: eh be’ sì, in qualche modo un discendente di quei "turchi" o "mori" che avevano terrorizzato per secoli i sardi alla fine ce l’aveva fatta a sbarcare e a insediarsi, non più temuto ma accolto con tutti gli onori, in veste di avanguardia, sponsor e testimonial del turismo che in quegli anni cominciava a reclamizzarsi come promessa di vacanza di lusso per un’Italia che aveva già cominciato a mettere in banca i risparmi del boom economico.

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Marianne Sin-Pfältzer: Porto Torres, 1961. © Ilisso edizioni, g.c.

Costa Smeralda, anche quello era un nome turistico, promozionale, prima la zona si chiamava Monti di Mola. Un po' come Golfo Aranci, dove di aranci non ce ne sono mai stati (i ranci erano i granchi, meno attraenti per il bagnante).

Nella baia di Porto Cervo invece ci accolse un agente immobiliare che aveva tempo da perdere, perché lo aveva capito benissimo che non li avevamo i soldi, e ci mostrò le villette sulle scogliere. Ancora vuote, nuove, odorose di calce e vernici.

Un grande volume di fotografie in bianco e nero mi riapre la cateratta dei ricordi a colori di quel viaggio familiare che per me, abituato alle villeggiature adriatiche e alla noia felice di mesi passati nel cortile dei nonni in alta Romagna, sembrò un’avventura esotica.

Scopro sfogliandolo che quella fotografa a me finora sconosciuta, una tedesca di Hanau, di nome Marianne Sin-Pfältzer, pubblicava proprio allora questi suoi reportage di viaggio nell’isola di cui lei, nordica di origini e di nascita, si era innamorata perdutamente.

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Marianne Sin-Pfältzer: Orune, 1956. © Ilisso edizioni, g.c.

Ma non ciecamente. Perché dentro questo libro che risveglia in me ricordi, Sardegna paesaggi umani, non c'è precisamente e soltanto quella Sardegna che l’immaginario comune si aspettava, forse si aspetta ancora, che probabilmente ci aspettavamo noi quando scegliemmo di andarla a visitare.

Non è la Sardegna del fascino e della paura. La terra selvaggia e riarsa dei montanari di mare, dei pastori diffidenti, l’isola riarsa, selvaggia, africana e non levantina e raffinata come la molle Sicilia.

La terra delle pietre, dei “mangiasassi”, la terra che pietrifica per punizione uomini e animali in rocce e scogli dalle forme sorprendenti.

Chi sia stato il responsabile di quella costruzione mitica che è la Sardegna immaginaria, occorre chiederlo a storici e antropologi (e nel volume c’è per questo uno splendido saggio di Giulio Angioni). Vero è che quel mito fu così potente da condizionare molti “sguardi da fuori” che si posarono sulle sue montagne, le sue rocce, i suoi fichidindia.

La Sardegna è una terra di fotografi (lasciatemi ricordare Franco Pinna e Sebastiana Papa) ma anche insospettabilmente fotografatissima da fotografi venuti da fuori.

La lista è così lunga che esito a imporvela, bastino alcuni nomi che forse non verrebbero alla mente: August Sander, Henri Cartier-Bresson, Werner Bischof per stare solo fra i classici.  Una casa editrice sarda, Ilisso, la stessa che ora riscopre Sin-Pfältzer, con amore e intelligenza va riaprendo da qualche tempo quelle decine e decine di archivi e li pubblica in una serie di raffinati volumi.

Cosa attirava gli obiettivi di tutti questi visitatori? La possibilità di trovare in quella terra marginale ma non lontana il materiale ideale per una “costruzione dell’alterità” di cui l’europeo medioborghese nell’era della modernità aveva bisogno per fabbricare, a specchio, la propria identità: questa l’interpretazione di un antropologo visuale, Francesco Faeta, che ha studiato e confrontato fea loro quei repertori.

Da quell'insieme di sguardi vien fuori una narrazione collettiva, distribuita nel tempo ma straordinariamente coerente, fondata su due suggestioni: orientalismo e allocronia. Ovvero su un “processo di allontanamento nel tempo, di primitivizzazione” su cui far risaltare, per contrasto, la modernizzazione del continente.

Ma quella Sardegna che Marianne vide, e che ricordo anche io, non era più la terra del neolitico vivente, l’esotico sotto casa, l’Africa vicina, una specie di museo antropologico a cielo aperto, dove i civilizzati cercavano il brivido dell’arretratezza pittoresca, di rapitori ossequienti al codice barbaricino, intenti a divorare pane carasau e perdersi in canti a tenores, il luogo di curiose asprezze opportunamente tenute a distanza da un braccio di Mediterraneo parsimoniosamente solcato dalle motonavi della Tirrenia.

Macché. La prima volta che Marianne ci arrivò, è vero, le auto dovevano ancora essere sbarcate dai traghetti con gru e paranchi; ma la Sardegna aveva già aperto le porte al meccanismo che doveva portarle un relativo benessere e una profonda metamorfosi.

14_G, 1, Porto Cervo (Cala Volpe, speculazione Aga Khan), 1964

Lisetta Carmi: Porto Cervo, 1964. © Lisetta Carmi

Era una regione che scopriva di poter mettere a frutto ciò che aveva sempre ritenuto senza valore venale: il domestico, il comunitario, il tradizionale. Un immaginario che rivelava di essere attrattiva disponibile, set di visioni, sapori e profumi adattabili a consumo ludico-culturale nuovo.

Erano gli anni in cui la Sardegna pensava di poter “offrire intatto proprio ciò che il turismo più contribuisce a intaccare, cioè la tradizione, il come eravamo”, scrive Angioni, pensando a come in quegli anni i foratoni di calcestruzzo così comodi ed economici sostituivano la pietra nei cantieri delle case.

Ed ecco, in un altro libro (adoro queste coincidenze) d'improvviso rivedo quelle villette nuove nuove, quelle di Cala Volpe, a Porto Cervo, proprio come le vidi allora: quasi ancora non finite, disabitate, smaglianti nel loro finto rustico pittoresco da villaggio di pescatori senza reti e senza fatica, i pescatori del benessere, i pescatori di seconde case.

Le fotografò un'altra donna: Lisetta Carmi. La dolce, determinatissima signora genovese dalle molte vite, che era in Sardegna, anche lei, in quegli anni. Il Man di Nuoro dedica una mostra a quel suo reportage meno conosciuto.

Anche lei, che con l'isola ebbe una relazione intensa, di affetti personali e solidali, che non resisteva al fascino dell'arcaico, era infastidita da quella speculazione edilizia "che vorrebbe rifarsi allo stile popolare ma riesce soltanto ad essere assurda e irrazionale".

28_D, 3, Orgosolo, 1966

Lisetta Carmi: Orgosolo, 1966. © Lisetta Carmi

Credo che sia una grande fortuna avere, di questa Sardegna liminare, sospesa fra due mondi, esotico e disponibile, e fra due immaginari, mitico e consumistico,due raxcconti in presa diretta come quello di Carmi e di Sin-Pfältzer. La prima, fotografa di coscienza e di rottura delle convenzioni, aveva forse un progetto più politico e consapevole: quando arriva in Sardegna il governo ha appena varato quel "Piano di Rinascita" dell'isola che sarà la base della sua industrializzazione, e il Consorzio Costa Smeralda ha lanciato il suo piano di "valorizzazione turistica" delle coste galluresi. Lei bne è pienamente consapevole: la sua Sardegna è piena di figure che sembrano in attesa di capire che cosa sta accadendo.

Marianne, in Germania sarebbe diventata una professionista rifinita, nel campo della moda e del reportage di viaggio. Ma venticinquenne era finita quasi per caso in Sardegna, alla Maddalena (dove conobbe la figlia di Garibaldi, Clelia) nell’estate del 1950, per una specie di vacanza-lavoro (educatrice per una famiglia), restando subito stordita dal fascino di una terra insospettata.

Ci tornerà più volte, la girerà a più riprese, prima in autostop con la Rollei al collo poi in station wagon con tutta l’attrezzatura, non solo il nord dell’offerta turistica ma anche il sud delle campagne delle miniere e della città. Finisce per conoscere un editore sardo, Fossataro, che nel 1958 le pubblica il primo volume, Sardegna quasi un continente.

Il suo sguardo è affascinato dalla singolarità di una terra insolita, empatico ma disincantato. Scattata dal ponte di un traghetto Tirrenia, la passerella con il cartello “Prima classe” sbarca sul molo di Porto Torres turisti di eleganza cittadina, mentre da un portellone della nave escono quattro asinelli. Arcaismo pastorale e modernità urbana si alternano e si incrociano.

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Marianne Sin-Pfältzer: Castelsardo, anni Sessanta. © Ilisso edizioni, g.c.

Una ragazza in gonna al ginocchio, golfino da Upim e baschetto civettuolo chiacchiera con tre coetanee in nero con le giare in equilibrio sulla testa. Reti ad asciugare e pubblicità dei pneumatici Pirelli. Cesti intrecciati e stazione delle autocorriere. Giare e cartelli del Bitter Campari. E ancora, il venditore di enciclopedie esposte sul cofano della Cinquecento, gli striscioni elettorali, i blocchi stradali della polizia a Orgosolo, i frigoriferi Ignis, il corteo studentesco “siamo con Rudi Dutsche” (ed è già il ’68, l’anno in cui in Sardegna arrivavo io ragazzino).

Insomma, se molte immagini, prese da sole, possono suggerire una narrazione pittoresca, prese tutte insieme sono lo scandaglio in un’epoca di transizione, di contraddizione, dove il passato tradizionale sembra già messo fra le virgolette della sua citazione turistica. E le sorprendenti fotografie a colori hanno i colori un po’ falsi delle fotocolor di famiglia al mare, i colori Instamatic-Ferrania della mia infanzia, quelli che i programmi di fotoritocco ti offrono in preset come “memory color”, appunto.

Tutto questo racconto per dirci ancora una volta cosa può fare la fotografia quando arriva nel posto giusto, al momento giusto, anche senza l’epica dell’evento o la retorica dell’arte, semplicemente facendo quello che era nata per fare: condividere uno sguardo su un luogo, un momento, una realtà della storia.

La fotografia che ci rese divini

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Forse abbiamo riso troppo alle spalle di Honoré de Balzac, per quel suo terrore di farsi fotografare.

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Nadar, caricatura di Balzac. Bibliothèque Nationale de France

Abbiamo sorriso troppo di quella sua teoria per cui ogni fotografia strapperebbe dal sembiante del ritrattato uno “spettro”, ma forse perfino qualcosa di più materiale, quasi una sottilissima pellicola, cosicché, dai e dai, posa dopo posa, alla fine di lui potrebbe non restare più nulla.

Abbiamo riso di lui, non abbiamo creduto che parlasse sul serio, come non gli credette il grande Nadar (che ce lo racconta nelle sue memorie), ma che forse lo fece per difendere il suo ruolo di fotografo ritrattista dall’accusa infame di scuoiare vivi i suoi clienti, o per semplice scetticismo positivista e scientista.

Mentre lo presero sul serio alcuni colleghi scrittori, Théophile Gautier e Gérard de Nerval. Del resto, anche Susan Sontag sembrò pensare che Balzac fosse in buona fede.

Quella teoria inquietante, ovviamente, non era frutto della fantasia di Balzac. Come è noto, e ovviamente come Balzac stesso sapeva, la dottrina dei “simulacri volanti” risale ad Epicuro e fu poi formulata con precisione da Lucrezio.

Lungi dall’essere una credenza superstiziosa, era una teoria dell’immagine: sosteneva che ciò che vediamo di un oggetto o di una persona fa parte della sua realtà fisica, da cui si stacca per giungere a noi.

Una teoria oustide-in in perenne antagonismo con la sua opposta, per esempio con l’oculocentrismo illuminista, per il quale è lo sguardo che va in cerca delle cose, inside-out, come il bastone del cieco.

Bene, la fotografia riportò in vigore la teoria oustide-in con la forza dell’alleanza fra fisica ottica e chimica. Le immagini, sembrò dimostrare, si staccavano dalle cose, si gettavano come pesci nell’imbuto della lente e si stampavano sulla lastra. Balzac, ci credesse o no, vide con perspicacia nella fotografia la rivincita di Epicuro e Lucrezio: l'idea di un legame causale fisico tra referente e immagine.

Più ancora: con quella teoria approdava nel pensiero occidentale tutto il pensiero magico delle culture studiate dagli antropologi; il pensiero che attribuisce alle immagini una consustanzialità tale con il loro prototipo da rendere praticabile attraverso di loro l'esercizio di un potere sul loro modello; con il malocchio, il voodoo.

La fotografia del malcapitato bersaglio, tutti lo sanno, è diventata materiale privilegiato per tutte le fattucchiere addette al malocchio, più ancora dei suoi capelli, o del fazzoletto o del pupazzo con le sue sembianze., che pure, secondo la gerarchia magica, dovrebbero essere mediatori più potenti, perché la magia per contatto è più potente di quella per somiglianza.

E allora, forse dovremmo anche rivedere quella definizione celebre (una delle tante, era una vera fucina di definizioni) che della fotografia diede Roland Barthes, come di un oggetto “antropologicamente nuovo”. Lo è stato per molti aspetti, nel rapporto col tempo primo fra tutti.

Ma non c’era molto di nuovo in questo, cioè nel potere che le immagini hanno su di noi, e viceversa, e sul potere che abbiamo tra noi attraverso le immagini.

arte-e-agency-3430In Arte e Agency, un libro che è stato definito “un classico suo malgrado” dell’antropologia visuale, piuttosto contestato quando apparve nel 1998, e che arriva alla sua prima traduzione italiana solo oggi, Alfred Gell chiude un circuito che i controversi pensatori del “potere delle immagini” (da von Schlosser a Freedberg a Bredekamp a Mondzain) avevano cominciato a curvare sottraendo le opere d’arte al dominio della pura fruizione estetica, scoprendone il lato oscuro di agenti provocatori di azioni ed emozioni e reazioni umane. Lo chiude aggiungendo il tratto mancante del cerchio: l’antropologia.

Non è stato lui per primo, ovviamente, a scoprire che nelle culture primitive e tribali le immagini agiscono. Gell è stato un lettore attento di Mauss e di Frazer, studiosi dei meccanismi della magia tradizionale, per la quale le immagini sono quasi ovunque fondamentali.

Il suo contributo originale, e quasi spericolato, è stato far crollare la barriera fra due ambiti che anche quei pensatori non erano riusciti a unificare perché considerati fondamentalmente diversi: la storia dell’arte occidentale e le immagini delle culture studiate dagli antropologi.

Lo ha fatto cercando una teoria che desse ragione dell’agency (parola difficilissima da rendere in italiano, i traduttori ci hanno rinunciato: potere, influenza, azione sono tutti termini insufficienti…) degli oggetti visivamente costruiti in entrambi i mondi: quello in cui sono, o li chiamiamo, opere d’arte; e quello in cui sono, o li abbiamo considerati, oggetti rituali (salvo appropriarcene, esporli nelle bacheche del nostro mondo e chiamarli arte tribale).

Gell costruisce addirittura un sistema piuttosto articolato che ambisce a funzionare in entrambi gli ambiti, basato su un quartetto di agenti: il prototipo (diciamo il “modello” che l’opera rappresenta), l’artista, l’indice (l’oggetto visuale, l’opera) e il destinatario, un sistema di cui si innamora forse un po’ troppo, fino a renderlo un po’ rigido, quasi matematico.

Ma una sua intuizione fondamentale è illuminante. Ed è questa. Gli oggetti visuali che l’uomo investe di significato sono per lui “un sistema di azioni volte a cambiare il mondo, piuttosto che a codificare proposizioni simboliche su di esso”. Quindi non vanno trattati come oggetti passivi, riempiti di senso da un agente esterno e solo da contemplare; ma come attori sociali. Come se fossero persone, dice.

Nessun animismo, in questo. Gli è ben chiaro che, da solo, un pezzo di legno non diventa un feticcio a chiodi del Congo, né una tela di propria iniziativa si trasforma nel ritratto del duca di Wellington.

Ma una volta che l’artista ha esercitato la sua agency sull’opera (magari indotto dall’agency di un prototipo), questa la esercita sul destinatario. E non finisce qui, tutto il sistema può funzionare all’inverso, il destinatario esercita la sua agency sull’artista (gli commissiona un’opera), l’opera agisce sull’artista (l’objet trouvé di Duchamp) e via così, in una giostra in cui siamo tutti a turno agenti e pazienti, secondo le diverse funzioni sociali di cui l’oggetto artistico è il tramite.

Come irrompe la fotografia in tutto questo? Come un sasso in piccionaia, come sostiene Barthes? Non proprio. Certo, la fotografia sembra a primo acchito sconvolgere gli schemi. Alla sua apparizione si presenta, ammette Gell, come “una forma di produzione dell'immagine senza artista, l'immagine che forma se stessa partire dalla luce emanata dal prototipo”.

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Idolo A'a, Rurutu, Polinesia

Ma anche questa convinzione, vera o falsa che sia, non è anomala, rientra nel suo schema, in quanto prototipo che agisce direttamente sull’indice senza la mediazione dell’artista. Le culture primitive, o non occidentali, ma anche l’arte religiosa occidentale, conoscono molte opere achiropite, cioè non realizzate da mano umana, o ritenute tali (pietre levigate cadute dal cielo, la Sindone). L’opera sembra essere agente di se stessa.

Non solo. Anche quando c’è di mezzo l’artista, tra lui e l’immagine non c’è una relazione tranquilla e univoca: il pittore, e non solo il fotografo, anche se in maniera diversa, può rimanere sorpreso dal risultato finale della propria opera, perché diverso da quello che aveva in mente quando la iniziò. In quel caso, l’opera agisce sull’artista.

Oppure: la nostra immagine allo specchio a volte ci dispiace, non ci troviamo adeguati, come nella fototessera, e in entrambi i casi siamo assieme gli agenti, i prototipi e i pazienti….

Le immagini, insomma, anche quelle che produciamo noi stessi, non sono mai interamente a nostra disposizione, in una relazione unidirezionale; una volta create agiscono come fossero dotate di vita e di volontà.

È questa (razionalissima, non magica) constatazione che sta alla base dell’uso magico delle immagini e della venerazione delle icone. Anche qui, la barriera tra i due mondi, quello dell’arte e quello del rito, nel sistema di Gell crolla, e anche una galleria d’arte occidentale ci appare simile a un tempio induista:

“Non posso distinguere tra esaltazione religiosa ed estetica; gli amanti dell'arte, a mio avviso, venerano per davvero le immagini, dispiegano quel che de facto è un loro atteggiamento idolatrico, razionalizzandolo come se si trattasse di soggezione estetica”.

L’estetica moderna, allora, si ridurrebbe a una strategia di rassicurazione e sostituzione, necessaria quando la crisi illuminista e poi il razionalismo scientista minano la narrazione religiosa del mondo, e si avverte il bisogno di una nuova “malia”. L'atteggiamento del culto lascia il posto all'atteggiamento estetico (così assonante con estatico…). Ma è così diverso? Non troppo, dice Gell:

“Abbiamo sì neutralizzato i nostri idoli riclassificandoli come arte, ma davanti a loro ci abbandoniamo a inchini tanto profondi quanto quelli dell'idolatra più devoto di fronte al suo dio di legno”.

Mi verrebbe da dire allora che la fotografia (di cui in realtà Gell si occupa pochissimo, non molto di più di quanto ho già riportato) è stata forse questo, in tentativo di ri-incantamento del mondo.

Potrebbe essere un’ipotesi suggestiva, anche perché contraddirebbe la sua interpretazione più comune, essere stata uno degli attrezzi del positivismo, del realismo, della veridicità meccanicamente dimostrata.

Nella giostra dell’agency, abbiamo detto, noi creiamo le immagini e loro agiscono su di noi. Noi creiamo le immagini perché agiscano su di noi. Mentre guardiamo le fotografie, chiediamo in realtà alle fotografie di guardare noi. Di restituirci la magia del mondo che l’arte sacra ha smesso di fornirci.

f38dbdccover29171Nel 1907, Picasso imprime una svolta cruciale all’arte occidentale, quando dipinge Les demoiselles d’Avignon (riprendo la lettura, affascinante, che ne dà Giuseppe Di Giacomo nel libro La bellezza abbandonata) gettandosi alle spalle due millenni di ricorsa del bello.

Impressionato dall’arte cosiddetta primitiva, oceanica e africana, impone alle sue signorine i volti di maschere degli idoli, folgorato dall’intuizione che l’immagine sia stata, all’origine, nient’altro che un modo per affrontare la sfida terrificante dell’ignoto, la minaccia ostile del mondo, arte come “arma per aiutare la gente a non essere più soggetta agli spiriti”.

La fotografia, immagine achiropita, sembra essere nata per portare sollievo a quell’ansia risorgente. Mondo che si fa immagine davanti a noi, immagine generata ma non creata da una nostra decisione, le abbiamo forse in fondo chiesto soprattutto questo, di rivolgere verso di noi quello che l’induismo chiama darshan, “un particolare tipo di benedizione trasmessa attraverso gli occhi”, una benevolenza divina, un dono generoso che il superiore fa al subalterno, il dono dell’apparire.

Fotografiamo noi stessi e il mondo perché le fotografie ci confermino che anche noi siamo visibili. Che anche noi siamo immagini. Finalmente, dopo millenni di immagini che ci servivano per convocare gli dèi, anche noi siamo dio.


Uomini, animali, carote, e la Natura. Che macello

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Ma le carote, non soffrono? No, non soffrono, mi rispondono gli animalisti, un po’ a denti stretti, forse preoccupati di non dover morire di inedia, per coerenza.

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Maro Giacomelli - © Archivio Mario Giacomelli, Senigallia

Non provano dolore, le carote. Quindi per loro nessuna solidarietà extraumana verso il vivente: nessuna indignazione quando finiscono tritate in julienne.

Lo so, è una provocazione e neppure così originale. Non lo faccio per rendermi antipatico. Ma quella domanda, via, un po’ ha senso.

Ho letto con attenzione il catalogo della mostra Mattatoi, che Simona Guerra ha realizzato nella sua Piktart di Senigallia mettendo a confronto due lavori, uno di Mario Giacomelli e uno di Pino Dal Gal.

Il primo, il grande irregolare, fotografò nel macello della cittadina marchigiana, dove viveva, in bianco e nero, nel 1961. Il secondo fotografò a colori, quindici anni dopo, in un ammazzatoio di polli da qualche parte dell’Italia del Nord.

Bene, è evidente, sono in entrambi i casi immagini atroci. Del resto, chiunque abbia visto un macello in funzione (io no, e non ci tengo) mi dice che è difficile uscirne con qualche residuo appetito per bistecche e arrosticini.

I mattatoi sono fabbriche di vegetariani. Forse per questo non amano che la gente vada a ficcarci il naso. Fotografi, tantomeno. Ma quei due ci riuscirono.

Perché in quelle bolge di sangue e arti mozzati, tra quelle urla che le fotografie almeno ci risparmiano, a quanto pare noi proviamo dolore. Quasi un dolore fisico, sono i nostri neuroni specchio che si attivano come di fronte alla sofferenza di esseri umani. Percepiamo una empatia che scavalca i confini di specie.

È una questione di com/passione, e la mostra non la sterilizza, non la confina a una pietà di secondo grado, anzi: nel suo testo molto coinvolto Simona arriva a paragonare quei gironi di morte ai campi di sterminio nazisti. Troppo? Per gli animalisti no, perché la crudeltà umana è una sola. Forse è vero, forse no. Non voglio filosofeggiare.

Ma le carote?, ho detto io, a botta calda. Non mi sono trattenuto. Voglio dire, di cosa stiamo parlando? Quando ascolto gli animalisti, nei quali riconosco quasi sempre buona fede e grande passione e sentimenti, spesso faccio fatica a capirlo. Di ecologia? Di etica? Di profilassi sanitaria? Di economia? Di nutrizionismo? Di filosofia morale?

Ognuna di queste preoccupazioni ha una estensione diversa e produce deontologie diverse. Non basta a unificarle il precetto: tu non infliggerai dolore ad alcun essere vivente.

Che cosa è il dolore? Non sono un biologo, ma timidamente leggo che anche loro non sono tutti d’accordo su cosa sia il dolore, via via che ci sia allontana dagli scalini alti della zoologia dei primati. Il dolore dei pesci, quello degli insetti sono verosimilmente diversi dal nostro, leggo. Vanno rispettati ugualmente?

Dal Gal - Chicken Story 2

Pino Dal Gal - © Archivio Pino Dal Gal, Verona

Forse, ma ammettiamolo, la fotografia animalista militante, che va all'assalto di allevamenti e macelli, non si è occupata molto di disinfestazioni   antizanzare, né ha prodotto (come fa per foche e maialini) ritratti drammatici di baby scarafaggi schiacciati sotto il tacco, in cucina.

Forse gli animalisti più integrali si commuovono anche per loro, e se è così hanno la mia ammirazione, ma quella che si tributa alla coerenza religiosa, perché qui ci avviciniamo al giainismo; sapete, quei dolci credenti nell’unità del vivente che spazzano la strada davanti ai loro piedi per non rischiare di calpestare qualche insettino, mentre si recano in efficienti uffici nei grattacieli dei quartieri d’affari dell’India (pare che i giainisti abbiano una vocazione spiccata per gli affari, ma forse è un pregiudizio).

Ma se devo guardare solo la produzione iconografica dell'animalismo, questa cosa del dolore mi sembra somigli a una specie di solidarietà a estensione limitata, abbastanza circoscritta alla cerchia dei portatori di terminazioni nervose. Che non è certo tutto il “vivente non umano”.

Alla fin fine, l’animalismo continua a sembrarmi pervaso di antropomorfismo e intriso di antropocentrismo: mi pare che, più su una fratellanza universale del vivente, si si basi su un’idea di “umanità estesa” benevolmente solo ad alcuni animali, ritenuti senzienti a differenza di altri, a cui attribuiamo sensazioni somiglianti alle nostre.

È la nostra idea di dolore il criterio con cui scegliamo gli animali da ammettere a questa cerchia dei degni di essere difesi. Alla fin fine sono sensazioni umane che tuteliamo. Le nostre. Siamo noi al centro di tutto. Le carote sono sicuramente una forma di vita, ma ahiloro non hanno le nostre sensazioni.

Dal Gal - Chicken Story 3

Pino Dal Gal - © Archivio Pino Dal Gal, Verona

Non volevo scivolare nella tirata polemica e mi fermo.

La lunga premessa mi serviva per tornare alle fotografie. Quelle due opere al nero, meglio al rosso sangue, sono ambientaliste? Religiose? Moraliste? Entrambe le cose? Una più dell’altra?

Appartengono, dico io, a due universi antropologici diversi, quasi opposti. Il mattatoio di Dal Gal è il luogo della morte industriale, seriale, meccanizzata.

È per lui il vero luogo del dis-umano: i macellai si vedono, ma sembrano far parte della struttura, del meccanismo, le uniche presenza assolutamente vitali sono i polli, magari quelli coperti di sangue sfuggiti alla presa della catena di ammazzaggio, che vagolano imbrattati orrendamente sui pavimenti viscidi.

Nelle foto di Dal Gal, con quei loro colori violentissimi, la morte è una creazione materiale dell’uomo, orrida, ma un po' come la guerra: non fa parte della natura umana, ma di una storia, di un mercato, è il retrobottega orripilante di una economia. Discende da strutture e sovrastrutture sociali. L’uomo ne è il consapevole creatore, e responsabile morale.

Giacomelli, no. Niente di tutto questo. E non perché la sua visione sia meno atroce. Ma l’uomo, qui, non è il regista che governa la (o)scena crudele. Ne fa invece parte, come attore, ma senza volontà, come burattino nelle mani di qualcosa.

Giacomelli - Mattatoio 2

Maro Giacomelli - © Archivio Mario Giacomelli, Senigallia

Di cosa? Ma è chiaro, della sua stessa antropologia. Che è poi la forma storica della natura.

Qui come altrove nella sua opera, ma qui in misura molto forte, Giacomelli è quel fotografo leopardiano purissimo che conosciamo.

La natura è matrigna, insensibile e impietosa, e il dolore ne fa parte in modo ineliminabile, è una implicazione fondamentale del vivente, di tutto il vivente.

L’uomo e la carogna di bue che ha sulle spalle sono parte della stessa materia: come lo sono le colline arate in modo psicotico e le righe dei volti delle sue vecchie all’ospizio.

Insomma, Dal Gal condanna, Giacomelli non assolve ma solo perché non manda l’uomo a processo come imputato, semmai come vittima.

Il fatto che il macellaio tenga il coltello per il manico, nel mattatoio, non fa di lui un carnefice, un funzionario del male: semplicemente questo è il ruolo che gli assegna il capriccio da sfinge della natura, che non si cura dei nostri giudizi sul bene e sul male, come lei stessa ebbe a dire all’islandese in quel celebre dialogo di Leopardi, appunto.

Con la ragione, io sto con Dal Gal. La sua denuncia politica di una cultura della sofferenza inflitta serialmente è fortissima, necessaria. Dice che non abbiamo bisogno di mangiar carne a questo costo. 

Ma con l'anima sto con Giacomelli. Perché il suo modo di “sentire” il dolore degli animali non è politico, è filosofico. Non è antropomorfico, è universale. Non gli serve a nulla trasformarli in controfigure umane, in internati di un campo di sterminio gestito da un potere malvagio.

Non ci pensa nemmeno. Non è la denuncia di un sopruso politico, economico, ecologico che ha a cuore. Come non pensa a selezionare gli animali secondo il loro grado di vicinanza senziente all'uomo. Uomo e animali fanno tutti parte di un unico impasto mortale, perituro, dolente. Giacomelli è più animalista di tanti animalisti, perché ha una visione tragica della Natura.

Per lui, gli animali sono pezzi del male di vivere che grava su tutta la terra, umani animali vegetali minerali, senza distinzione, senza una ragione, senza una spiegazione, senza una remissione.

Sette anni in paradiso. L'Amazzonia di Salgado

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Sto navigando a fianco di Sebastião Salgado lungo i fiumi del cielo. Dicono ci sia più acqua in queste nuvole perenni che giù, nel Rio delle Amazzoni.

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Sebastião Salgado: Sciamano Yanomami dialoga con gli spiriti prima della salita al monte Pico da Neblina. Stato di Amazonas, Brasile, 2014. © Sebastião Salgado/Contrasto

Adesso invece planiamo sui fiumi della terra, le vene della foresta pluviale, in piroga scavalchiamo i tronchi a pelo d’acqua, ora siamo arrivati al villaggio, possiamo entrare in una delle tre ocas, le capanne color ocra, per incontrare loro, gli indiani: “Vieni, ti presento il nostro passato vivente”. Eccoli, ci guardano dritto negli occhi, dalle cornici, in pose per le quali le solite parole dei reportage fotografici, bellezza, dignità, rispetto, sembrano insufficienti. C’è invece una specie di avvertimento, di rimprovero, in quegli sguardi.

Aggirarsi con Salgado nella penombra di questa galleria del Maxxi, tra paesaggi sterminati scolpiti in bianco e nero che galleggiano nel vuoto, disposti con emotiva sapienza da Lélia Wanick, compagna di vita e indispensabile collaboratrice di uno dei più evocativi fotografi viventi, è come ripercorrere uno dei 48 viaggi che gli sono stati necessari per compiere Amazônia, epico affresco di un Eden da cui stiamo cacciando via i nostri Adamo ed Eva: con la deforestazione, gli incendi, ed ora anche con il virus. Eppure: “ho camminato per sette anni in paradiso” sta dicendo Salgado, con quella dolce cadenza brasiliana che tinge qualsiasi lingua straniera parli.

E ora ci mostra un paradiso perduto?

“Il momento è drammatico. Ma la distruzione dell’Amazzonia non comincia adesso. Ho scritto le cifre qui, sulla mappa. Negli ultimi quarant’anni abbiamo distrutto il 17,2 per cento della foresta amazzonica brasiliana. Prima del virus, è stato il nostro consumismo a farlo. La fame di legno per i nostri mobili, di minerali per i nostri cellulari, o di soia per ingrassare i nostri maiali”.

Ma qui attorno vedo immagini di meraviglie…

“Tutto quello che ho fotografato è vivo. Stiamo rosicchiando l’Amazzonia ai bordi, il pericolo è grande, ma c’è ancora quell’82 per cento intatto, ed è gigantesco, ed è lì che sono andato. Un paradiso grande venti volte l’Italia, abitato da trecentomila persone che lo rispettano. Tribù meravigliose e segrete vivono in luoghi inimmaginabili. Oltre cento gruppi non hanno mai avuto contatti con la cosiddetta civiltà. Ma siamo al limite, bisogna agire”.

Cosa perdiamo, se perdiamo gli indigeni dell’Amazzonia?

“È evidente, perdiamo noi stessi. Loro sono noi, homo sapiens arrivati lì ventimila anni fa, rimasti lì, divisi in piccoli gruppi per sopravvivere in equilibrio con le risorse, mentre noi abbiamo moltiplicato il nostro numero fuori da ogni controllo. Sono l’origine ancora vivente dell’umanità. Sono la più grande concentrazione di diversità culturale del pianeta, 169 gruppi conosciuti, 130 lingue diverse…”.

Sono l’umanità che noi non siamo riusciti a rimanere?

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Sebastião Salgado: Arcipelago fluviale di Mariuá. Rio Negro. Stato di Amazonas, Brasile, 2019. © Sebastião Salgado/Contrasto

“Hanno il nostro sapere, ma in un altro modo. Hanno antibiotici, antinfiammatori naturali, conoscono le leggi della fisica. Un giorno, a caccia, un bambino mi dice: spostati, mio padre ha detto che la sua freccia cadrà dove sei tu. Era vero. Noi calcoliamo la balistica coi computer: quell’uomo, aggiustando la posizione di una penna”.

Non le è mai venuto il desiderio di rimanere? Si fa fatica a lasciare spontaneamente un paradiso…

“Ho vissuto momenti di felicità in Amazzonia. Ma ho anche io una piccola tribù: ho mia moglie, ho un figlio disabile, ho amici. Sono tornato. La foresta è il loro posto, non il mio”.

Che cosa ha portato con sé?

“L’idea della libertà. Nei villaggi non c’è repressione, non c’è violenza, non c’è imposizione. Un giorno ho chiesto all’interprete di dire a una mamma di sgridare il suo bambino che mi disturbava. Mi ha detto: non posso, non ci sono parole per dire questa cosa nella loro lingua”.

Quando ha cominciato Amazônia lei aveva settant’anni, una fama mondiale e un’opera epica e conclusiva alle spalle, Genesi. Perché ha voluto questa nuova impresa, forse la più faticosa della sua carriera?

“Un fotografo non va mai in pensione. Non è un mestiere, è il tuo modo di vivere. Ora ho 77 anni, e forse ripartirò per qualcos’altro. Incontrai gli abitanti dell’Amazzonia proprio mentre facevo Genesi, e pensai che fosse un mio dovere raccontarli”.

Loro lo pensano? Non si è mai sentito un intruso?

“Non sono andato per capriccio mio. Tutto è avvenuto attraverso le loro istituzioni, prima fra tutte il Funai, che ora purtroppo è nelle mani di Bolsonaro, ma ha un ruolo decisivo nella tutela degli indiani. Abbiamo scelto assieme le dodici tribù da visitare, Yanomami, Asháninka, Suruwahá, Korubo… Poi ho chiesto, atteso e ottenuto il consenso di ciascuna, ho seguito procedure di sicurezza, ogni viaggio ha richiesto anche un anno di preparazione e lunghe permanenze. Non mi sono mai sentito un frettoloso intruso”.

La sua presenza del resto non era invisibile…

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Sebastião Salgado e Lélia Wanick durante l'allestimento della mostra al Maxxi

“Certo che no. Non arrivavo solo. Per raggiungere alcune tribù su quelle distanze enormi servivano giorni di navigazione, anche in piroga, con guide esperte; viaggiavano con me interprete, antropologo, assistenti, anche un cuoco, perché è vietato agli estranei approfittare del cibo delle tribù. Era sempre un gruppo di dieci, dodici persone. Ma tutto questo per uno scopo solo, il mio lavoro”.

Chi era Salgado, agli occhi degli indiani?

“Un fotografo. Nei villaggi con l’aiuto degli abitanti allestivo una specie di studio, una capanna, con teli e coperture ingegnose. Per i ritratti”.

Hanno posato per lei. C’è una palpabile collaborazione. Che idea hanno della fotografia?

“Ci sono tribù che hanno contatti con l’esterno da un secolo, altre da ottanta, cinquanta, vent’anni, molte conoscono i media, sono organizzate politicamente. Sanno usare gli strumenti di comunicazione.  In questi video, sette leader spiegano le ragioni della loro resistenza alla distruzione”.

Si è proposto come una specie di portavoce?

“Non direi. Io ho messo ha disposizione il mio strumento, e ovviamente ho usato mio linguaggio. Ma il messaggio lo hanno messo loro”.

Quale? Cosa ci chiedono? Di essere aiutati? O di essere lasciati in pace, lasciati da soli?

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Sebastião Salgado: Giovani donne Suruwahá. Stato di Amazonas, Brasilel, 2017. © Sebastião Salgado/Contrasto

“Non possono più essere soli, e lo sanno. La pressione che sentono attorno è fortissima, non resisteranno senza l’aiuto del mondo. Lo chiedono. Ascolta le loro parole. Ci chiedono di non firmare trattati commerciali che li devasteranno. Di non comprare il legno che massacra le loro foreste, la soia che le sta rimpiazzando. Ci chiedono di fermare l’assedio. Hanno bisogno di noi, come noi di loro, è un unico destino”.

La cacciata dall’Eden è vicina?

“Ho camminato in paradiso. Ma anni fa ho camminato nell’inferno, in Ruanda, nell’Etiopia della carestia. So cos’è un inferno”.

Un proverbio brasiliano dice: non c’è male che duri per sempre, non c’è bene che non finisca. Lei è un economista per formazione: cosa ci aspetta, il bene o il male?

“Io penso che stiamo andando verso la fine dell’umanità. Non ascoltiamo i messaggi. Un virus ci ha messo in ginocchio, ma quanti virus si scateneranno in un pianeta squilibrato? Tre, quattro contemporaneamente, e la nostra storia sarà finita”.

Lei è andato nella foresta amazzonica a cercare l’inizio. Ha trovato l’inizio della fine?

“Siamo ormai degli alieni su questo pianeta. Non viviamo nella terra, non viviamo con la terra, ma in una bolla artificiale che la consuma e la distrugge. Dovremmo fare un viaggio di ritorno, come ho fatto io, dovremmo tornare sulla terra. Non so se sia tardi, ma è l’unica possibilità che abbiamo”.

[Una versione di questa intervista è apparsa su Robinson di Repubblica il 2 ottobre 2021]